Post Paestum

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Ho preso parte alla due giorni che si è tenuta a Paestum – Primum Vivere.

Ho deciso di partecipare a Paestum, perchè il richiamo era troppo forte per resistere. Perchè dietro alle parole “primum vivere” ho riconosciuto la necessità essenziale che, con grandi difficoltà, trova spazio ed energia nella mia vita di lavoratrice precaria.

L’appello “primum vivere” ci ha portate ad essere in molte, alla due giorni di Paestum. Di tipologia, estrazione, pensieri e pratiche diverse fra di noi.

Ciò che è venuto fuori dall’incontro è un diffuso bisogno di riappropriarsi del fare politica, come modalità di cura delle cosa pubblica, delle relazioni, del lavoro e della nostra idea di potere. Si è parlato, anche tanto di rappresentanza politica e per quanto il tema fosse sentito, in modo particolare, da tante consigliere, ex-parlamentari o donne che hanno fatto politica nei partiti, ho capito che da una buona parte delle presenti, come anche per me, l’urgenza oggi è di creare una propria  modalità di fare politica che non preveda la necessità delle deleghe, di colmare assenze maschili o di fare ordine nel caos della spartizione dei poteri di palazzo. A Paestum l’imperativo che ho percepito è stato: “Noi ci siamo”. Ho capito anche che, se non siamo viste è perchè non è possibile essere visibili in un mondo in cui per esserlo è necessario conformarsi a linguaggi e immagini costruite dal solito modello, ma questo non significa che non ci siamo.

Un possibile quesito che potremmo porci, andando avanti con il dopo Paestum è se sia più importante essere viste o se invece sia meglio proseguire nella costruzione e nella “sperimentazione” di  pratiche NOSTRE del fare politica che, magari dalla dinamica della spettacolarizzazione, si allontanano, invece che avvicinarsi. Certo, non possiamo pensare di isolarci in una nostra pratica felice, mentre fuori il  mondo viene dissanguato da modalità ben riconoscibili di gestione del potere….A Paestum ho ricevuto conferma di una mia convinzione, ovvero che se più forte e certa è la nostra essenza politica, più le possibilità di occupare le scene che vogliamo occupare verranno a crearsi, non quelle che ci vengono lasciate, ma quelle che con modalità nuove e altre vorremmo costruire.

Questo ho sentito a Paestum. Un nuovo modo di fare politica, che è partito dal metodo stesso che ci siamo date nell’affrontare i temi dell’agenda proposta. Non sono stati suggeriti interventi da consolidate esperte del femminismo a prendere la parola o a dialogare con il pubblico, partendo erroneamente dal presupposto che la teoria possa fare la pratica. Bensì si è cercato, non certo con poche difficoltà, di lasciare le discussioni dal e al pubblico, ovvero alle donne che erano venute da tanti parti di Italia per dire la propria sulla propria dimensione locale e, allo stesso tempo globale di lotta politica. Abbiamo attuato un metodo a ritroso, per il linguaggio corrente. La pratica che anticipa e contiene la teoria.

Il microfono è stato passato fra le presenti con interventi che non fossero stati preparati a casa, nel caldo di una riflessione intellettuale, ma sono stati sviscerati dalle emozioni e dalle sensazioni che ognuna suscitava nelle altre. E non è stato facile, ma certo per quanto complicato fosse, l’effetto che ne è scaturito è stato grande e potente e soprattutto a mio avviso, aggiungo, Altro. Altro da una modalità che non riconosce un’autorevolezza a parlare se non citata, definita da studi e ricerche di altr*. Ma si è preso la parola partendo da sè, dalla propria esperienza, dal proprio vissuto e questo era fare ed essere, per me,  in una dimensione politica.

E così si è parlato del tanto sentito tema dell’eredità che il femminismo storico ha lasciato, o mi viene da dire, prestato a noi “nuove femministe” e come ben ha sintetizzato Franca Cazedda: se siamo qui non ci sono eredità da ricevere, perchè la nostra presenza ne ha già fatto pratica. Quindi possiamo definirci tutte delle femministe storiche.

E poi il tema del lavoro. E’ stato finalmente e, aggiungo io, proprio in questo luogo dichiarato che, la precarietà non è un aspetto generazionale.  Questo “principio”, in passato, ci ha profondamente confuse, tradite e portato a mistificare la realtà, facendoci credere che la precarietà appartenesse solo ad un momento preciso delle nostre vite, quando in realtà ad essere precari non sono solo i nostri contratti di lavoro, ma ogni forma di relazione con il mondo: da quella affettiva, a quella abitativa, a quella sociale. Come le “quasi pensionate” che si ritrovano esodate, come le insegnanti che si vedono allungare l’orario di lavoro, ma non i compensi, come le giovani donne desiderose di crescere se stesse e, le proprie creature, non con tempi intermittenti o a termine, ma con quelli che naturalmente reputano necessari.

Ho cercato di porre un quesito al gruppo di lavoro a cui ho preso parte, ovvero come la pratica della relazione, come pratica di fare politica, possa favorevolmente contaminare i luoghi del lavoro. Come si possa fare fronte ad un agire individuale (rispetto ai propri tempi e desideri) nel lavoro. Come l’eredità del femminismo possa arrivare ai luoghi del lavoro precario senza subire un isolamento,accettato e condiviso da molt*,  ma come possa divenire una modalità propositiva e risolutiva di tensioni, malesseri e profonde discriminazioni.

Così per me, Paestum è stato un ottimo modo per visualizzare (ipotizzando, immaginando, desiderando) con altr* nuovi confini del fare politica che, dal femminismo possano prendere spunto, e che con questo mondo: femminile e maschile possano misurarsi. E allora i risultati e le possibilità offerte da Paestum sono molte, tante quante sono state le donne che erano presenti.

L’invito è non fermarsi, ma continuare a trovare modi e pratiche per contaminare i nostri mondi e le nostre realtà.

Chiara

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